Appuntamento col cinema della vita, un ripieno dal retrogusto precario.  Daniele  Petruccioli e il tortuoso viaggio nella penombra della solitudine.

In un’invernale primavera il passero solitario esce dai libri e vola via libero per cinguettare ancora una volta. Libra un po’ per poi posarsi su un ramo spoglio di fronte a una casa con le persiane chiuse. Cinguetta ancora e ancora ma il suo canto si disperde nel vento perché nessuno schiavo della propria frenesia si è fermato ad ascoltare. Vola ancora si posa sulla finestra di un edificio con una’ insegna sognante. Quanto sarebbe bello avere ancora un sogno, ma anche quella speciale attività si è lasciata abbindolare dalla mercificazione. Tutto ha un costo e questo non fa altro che aumentare il divario dell’irraggiungibilità. Si perde tra i rumori di quella caotica metropoli che molti chiamano città e cinguetta ancora. Se il passero fosse umano il cinguettio questa volta sarebbe una fragorosa risata perché ha appena scoperto che lo sguardo è questione di prospettiva, solo che in qualsiasi modo si guardi, la città non può celare la sua inconfondibile stranezza. Rimane sbigottito il povero passero perché credeva di aver volato chissà quanto invece deve ammettere a se stesso che il suo volo è stato pindarico. Una digressione lunga e forse inutile per frenare la volontà di afferrare quel preciso istante . Perché salvaguardarsi dal pericolo? Un interrogativo che resta sospeso tra terra e cielo nell’infinità dell’attimo, non è il momento di rispondere perché lo sguardo è già oltre, inconsapevolmente rapito da altro. Se il passero avesse saputo, leggere avrebbe sicuramente notato che su quell’insegna c’era scritto a caratteri cubitali CINEMA. Per tutti arriva a un certo punto l’appuntamento col cinema della vita e adesso è arrivato anche per lui. Un uomo senza nome nella miriade di chiunque dall’abbigliamento non proprio elegante ma nemmeno troppo dismesso, che della desiderata eleganza cerca di conservare una decorosa parvenza. Un aspetto ordinario come perfetta raffigurazione della sua esistenza. Entra. Sala vuota come riempirla? C’è la voglia di vederla animata? Non potrebbe permettersi nemmeno di andare al cinema ma una volta a casa penserà a come ricucire questo strappo, così come ha fatto con i pantaloni. Basta indugi si lasciano avvolgere dalle comode poltrone rosse passione, quel sentimento che non sembra albergare più in quell’organo chiamato cuore. Forse ha perso ritmo, sa di essere vivo perché ancora ne sente il tempo soprattutto di notte quando è scandito da battiti e ticchettii. Quale sia il tempo se il secondo o addirittura il terzo non sa dirlo con esattezza. Crede che nell’unicità dello scorrere del fiume ci siano in realtà delle fasi come uno dei videogiochi con cui imperterrito gioca suo figlio. Un confronto con i suoi ricordi. Un tempo che non tornerà più, uno da vivere e un altro che forse si vivrà. Sarebbe bello avere per tutto una certezza, come per la nascita e la morte ma lo stesso atto del vivere scaturisce dall’incertezza. Si specchia nell’immagine della giovinezza e non si ritrova perché ormai è tutto ridimensionato, il mare è diventato lago. Si specchia è dubita persino che Narciso possa innamorarsi di quel riflesso. Sbiadito come tutti gli aspetti della sua esistenza. Un racconto lungo o romanzo breve di estrema attualità che racconta una vita di desiderata incisi nei correi e potrei che prontamente si scontrano con rinunce e negazioni. Quest’aspetto l’autore lo riporta nella morfologia del racconto. Lo scrittore mantiene lo stile chirurgico che caratterizza la sua scrittura, questa volta non vi sono agglomeranti parentesi che aggiungono informazioni come in un puzzle, ma attua una vera e propria astrazione, dove la negazione regna sovrana e anche quando sintatticamente unisce due elementi in realtà li sta azzerando , per fare in modo che il protagonista sia sempre più addentrato nel baratro dell’annullamento. Come qualcuno che cade in acqua, ma non sa nuotare cerca faticosamente appigli ma non ne trova. Ed ecco che riecheggiano nell’aria le parole di una vecchia canzone di Baglioni dove canta che “ siamo storie di un secondo, di chi non ha vinto mai “ E in un rigo il lettore ritrova il senso del racconto stesso. L’astrazione del tutto in chiave essenziale ed esistenziale, un inno degli ultimi. In Sotto la città si percepisce chiaramente un’influenza dostoesvskiana perché è la parabola di un moderno Jakov di cui noi tutti siamo sosia che racconta il suo essere umiliato e offeso mentre nudo, attraversa il sottosuolo della sua stessa anima. Umiliato da una società che va avanti anche senza di lui e offeso anche da se stesso per aver continuamente davanti allo spettro dei suoi fallimenti. Non esiste consolazione alcuna ma malinconica verità. Un viaggio vero nei meandri della città e uno interiore, due strati che hanno lo stesso sapore e raccontano il retrogusto amaro della precarietà nella penombra della solitudine. Il film finisce, nulla è cambiato o forse tutto chissà. Si alza, si sistema il nodo alla cravatta ed esce aspettando un treno che forse ha fischiato. Alza gli occhi al cielo e vede il passero affida al lettore quelle pagine creando una storia nella storia che come ritmo ha quello lento ma armonico dei suoi stessi passi .