Ricostruirsi partendo dalle proprie ceneri, l’intimo viaggio di una pedina nella trappola dei ricordi. Martini e il ciclo  vitale del backgammon per spiegare il malinconico segreto della solitudine.

Ci sono momenti nella vita in cui ci si sveglia dal dolce torpore delle disillusioni e s’iniziano a vedere le cose con chiara nitidezza, l’impatto è uno schianto violentissimo. In quel preciso istante ci si accorge che arrivare e partire appartengono a due coniugazioni diverse e anche il tempo ha sempre corso una gara a sé, per questo nonostante la fatica, l’impegno e il sudore esso sarà al singolo uomo sempre imprendibile. Come possono afferrarsi gli istanti le emozioni le parole se il vento che scompiglia e confonde, il calore di un abbraccio persino la rabbia nelle parole hanno perso il colore della vitale consistenza? Nell’incredibile paradosso che è la vita, la verosimiglianza tra ogni forma vivente si coglie nell’attraversamento del vuoto . Ḕ così che s’inizia a raccontare la nuda imperfezione che resta catturata nella ragnatela dell’attesa. Inizio e fine sono due punti equidistanti che mai s’incroceranno pur facendo parte dello stesso insieme. Un indefinito principio che ammalia e seduce un finale incerto e oscuro che è irrimediabilmente sospeso e l’unica certezza che resta è il tragitto. Quella certezza che muta ancora e diventa consapevolezza. Fare dei giri immensi per poi ritornare dove si è stati bene, in cui sembra essersi stanziata la rimembranza di una casa. Un ultimo battito del cuore come coperta di paglia, poi più nulla. L’autore in questo racconto lungo ci presenta la nuova incarnazione del ciclo verghiano. Il protagonista è uno sconfitto che però tende a proteggere il suo baratro come fosse qualcosa da cui è difficile separarsi. Nella sua modernizzazione il vinto parte da una condizione economica agiata e anzi essa diventa un’arma per non affrontare apertamente la mediocrità della sua solitudine. Gregorio e il fratello Massimo portano avanti l’azienda famigliare, le loro esistenze, però non sono modellabili come la ceramica e il lettore li conosce nel momento in cui non sono quasi più padroni del loro destino. In questo soffocamento esistenziale ognuno dei membri della famiglia Boni attua un piano di fuga. Chi in una nuova relazione, chi in un albergo. La storia, infatti, si svolge all’interno di un hotel. L’unico elemento veritiero è Viareggio tracciata in una nostalgica bellezza suggestiva per narrare l’umana decadenza. Circondarsi di bellezza per celare bugie brandelli di verità relegati in un pugno di amare illusioni. Il protagonista si rifugia nel Grand Hotel Principe di Piemonte e il lettore inizia con lui un viaggio tortuoso per scoprire gli arcani segreti di uno c’era una volta. Da tutto il personale dell’hotel Gregorio è visto come l’uomo del mistero nonostante gli riconoscano un sorriso contagioso, un carattere affabile e una propensione all’ascolto che muta in spinosa e ruvida difesa nell’’ esatto istante in cui la sua sfera emotiva si sente intaccata. La narrazione a un certo punto potrebbe essere prigioniera di quella stasi aleatoria che è rugiada poetica rappresentativa e intrisa di monotonia e malinconia per tracciare una fase del rapporto uomo – natura. Una natura matrigna che arde proprio mentre il figlio incerto del domani si sgretolerà davanti al suo implacabile sguardo. Nonostante la diversa percezione, lo sguardo di entrambi si addolcisce perché la ripartenza inizia da uno stesso punto: esaminare le proprie ceneri. In questo percorso intimistico l’autore è conscio, però, di dover inserire un elemento perturbante che scuota l’altalena dei ricordi. Esso è il gioco che riacquista in queste pagine la funzione pedagogica e la concezione di una ricostruzione identitaria che faccia dialogare l’adulto e il bambino. Il gioco in questione è il backgammon. Gregorio inizia una sfida con Valerio, qui proprietario dell’albergo e partita dopo partita, mossa dopo mossa, proprio come Barbaglia con Bobby Fisher e Boris Spassky si delinea una linea narrativa dalla direzione inaspettata. I dadi del destino segnano a un certo punto una vittoria, un riscatto mentre nell’aria riecheggia quel verso di Battisti che chiede Hai mai visto un uomo piangere? E le redini del cuore gli sussurrano quel nome ancora una volta. Lo stile si dimostra lirico e ricercato ed è il valore aggiunto del testo anche grazie al sapiente utilizzo dei flashback. Il tratto è impregnato delle tematiche care a Giorgio Caproni importate nella prosa. Una diatriba sussurrante di voci che armonizzano il racconto e fino all’ultimo non si sa quale ascoltare perche da una parte c’è lo spazio circoscritto di un rifugio mentre dall’altra un infinito da scoprire. Entrambe le voci nascono dalla stessa sorgente, un’onda ammaliante che ha il contorno di una donna e un delicato bacio che s’infrange tra le rocce avendo il sapore di un addio. Se si sta diffondendo la visione di un mare fuori come simbolo di speranza, Martini ci ricorda che mare e scrittura non hanno un ruolo catartico e consolatorio. Lo sguardo di un uomo come il volo di un albatro possono avere l’illusione di combaciare anche solo per un istante e conservarne il ricordo ma la linea della terra e del cielo li separerà per sempre e alla fine forse in quest’atto si cela anche il fine ultimo del vivere in cui l’essere umano ritrova l’idillio perduto, ricomincia a camminare per la via lasciando sulla spiaggia l’orma dei suoi passi.