Grazia  Deledda “ Una casalinga prestata alla letteratura” con Roma negli occhi e Nuoro nella carne.  Silvia  Sanna e la ruvida parola che si tramuta in poetica danza.

“La vita in Sardegna è forse la migliore che un uomo possa desiderare: ventiquattromila chilometri di foreste, di campagne, di coste immerse in un mare miracoloso e tutto ciò dovrebbe coincidere con quello che consiglierei al buon Dio come Paradiso “.
Così descriveva l’isola Faber ma cosa c’entra il cantautore genovese con Deledda? Non vuole essere soltanto un velato omaggio agli studi che l’autrice ha svolto su questi geniali intellettuali del Novecento che ancora prepotentemente parlano ai contemporanei , ma analizzando queste straordinarie anime tormentate hanno molteplici affinità . Per entrambi il territorio sardo è stato il rigoglioso paradiso del loro personale e tacito inferno. Rugiada di gioie e di dolori che bagna copiosamente l’album della vita in cui i volti sono sbiaditi dal tempo, ma i ricordi appaiono ancora vividi nei blindati cassetti della memoria. La parola è ruvida esattamente come la loro visione della libertà. Canne al vento che pur attraversando le epoche non si piegano e non si spezzano anzi mantengono la spigolosità del grano che nasce dalla terra e a essa ritorna. Hanno attuato in qualche modo una rivoluzione silenziosa che ha fatto parecchio rumore. Quella con i suoni è una straordinaria quanto magnetica gara percettiva che si disvela nella sottile differenza tra l’ascoltare e il sentire. Deledda inoltre non parla soltanto di mare ma anche di montagna ed è indubbio che lei abbia dovuto superare la sua. La società novecentesca era radicalmente contraria a riconoscere meriti e capacità alle donne che non riguardassero l’educazione e i lavori domestici. Deledda è tra i nomi di coloro che sfondano il muro del pregiudizio arrivando con doppia fatica e triplo sudore ai vertici. Nel romanzo biografia di Sanna il lettore conosce Deledda mentre prende l’ultimo treno esistenziale. La donna parte da Roma per giungere in Svezia e ricevere l’ambito riconoscimento. Lì un giornalista che sembra spesso non conoscerne l’ampia bibliografia attua una vera sfida di diffidenza con domande ironiche, sarcastiche, puntigliose ma che allo stesso tempo mantengono vivida quella vaghezza per permettere al tragico e poetico vissuto di emergere completamente. La celebre scrittrice almeno all’inizio non immagina che questa intervista non saranno come le altre. Deledda sparisce e sotto i riflettori immaginifici arriva Grazia. Questo è un libro molto particolare perché come una medicina in mezzo bicchiere d’acqua si scioglie, riscalda e punge la gola, ma non cura, il dolore resta nudo e scalzo nella sua efferatezza proprio mentre l’immagine della totalità si perde nella sua evanescenza. Un corpo di donna nei sogni di bimba ed entrambi si fermano allo stesso punto: l’abbraccio caloroso della natura. Ecco perché sia Deledda sia Sanna quando parlano di scrittura non utilizzano mai la parola scrivere bensì danzare . Ḕ proprio ciò che fa la parola in queste pagine, eleganti virtuosismi, leggiadri movimenti che creano un rapporto contemplativo tra il materiale e le antiche e nuove speranze. L’opera è costituita da capitoli brevi dalla prosa asciutta e dal ritmo scorrevole che rende lo scrivere un atto di comunione con l’ignoto. Emerge quindi un ritratto intimo. Fotogrammi di ordinaria quotidianità che la rendono una casalinga prestata alla letteratura con Roma negli occhi e Nuoro nella carne. Una donna perfettamente inserita nel panorama culturale del tempo racconta l’amicizia e la stima artistica con Matilde Serao, Giacomo Puccini, Eleonora Duse senza dimenticare l’acredine con Pirandello. Non rinunciando tuttavia alla sua solitudine perché una donna anche passeggiando per i suoi vicoli può incontrare ostilità. Una persona importante nella vita della scrittrice è stata sicuramente il marito Palmiro Madesani. Qui è utilizzato da Sanna con una duplice funzione: la prima quella di tracciare il percorso di un tenero amore, la seconda come elemento distensivo della tensione narrativa. Intervistatore e intervistata sono in preda a un duello sensoriale che Palmiro interrompe qua, è là con battute e risate, come una simpatica cornacchia sul davanzale, ciò lo rende indubbiamente una costante presenza. Le due autrici disegnano al lettore un’affascinante geografia emozionale tra Nuoro, Viareggio, Roma e Stoccolma muovendo il dado del destino in autentiche tappe che fanno nascere le ramificazioni di un luogo. Il libro in definitiva si presenta come un toccante film muto in bianco e nero in cui nonostante tutto le parole sono perfettamente al loro posto e tocca al lettore colorare tutto con la personale sfumatura del cuore e questo vale soprattutto per l’ultima pennellata, è quella di un’emozionante arrivederci o di un amaro addio? In fondo si sa domani sarà un giorno lungo e senza parole,incerto di nuvole e sole .