Ricucire la lontananza con lo sparo della vendetta. Carlo Parri e una passeggiata emozionale nei vicoli romani tra Storia e poesia

La lontananza è come il vento afferma una canzone con il ritmo cadenzato di una poesia. Una danza dei ricordi che non smette di scuotere le stanche membra, attanagliare la mente e scalpitare persino quel povero cuore intrappolato alla continua ricerca della panacea della dimenticanza. Roma raccontata con la sapiente ironia di Trilussa. Un amore che nei contrasti delle ombre è rimasto indissolubile nell’implacabile piega del tempo. Anche questa volta il lettore è invitato ad andare oltre lo specchio delle parole e accogliere quella velata malinconia che cela tutto il retrogusto amaro del vivere. Le orme di Francesco Barra si disperdono tra le bettole e le vie dal profumo d’infanzia in una passeggiata emozionale che lo riporta negli anni in cui camminava perpendicolare all’onda della legalità senza mai toccarla e se ripensa a quel bambino scapestrato e un po’ ingenuo preso dall’ebbrezza del pericolo non avrebbe nemmeno creduto che più di trent’anni dopo quell’onda sarebbe stata attraversata ma anche mutata nella sua più fedele compagna. I mutamenti non riguardano solo lui ma anche la città, quella stessa Roma che esattamente come la sua amata donna di confine sapeva risvegliare nel suo burbero cuore il germe del perduto amore. Emozionarsi anche solo con uno sguardo oggi come allora. Una storia bramante di desiderio arricchita da fugaci ma loquaci silenzi. L’anima tormentata del commissario Barra vaga per i vicoli nella Roma fascista mentre uno sparo vero o fittizio che sia squarcia l’aria giocando a dadi con l’orizzonte del destino. Così rivede la sua Blanca, ma l’occasione si rivela ancora una volta infausta. Sembra inspiegabilmente coinvolta nella morte sospetta di un ebreo. Mentre l’Ovra serpeggia indisturbata per le strade, il commissario indaga ascoltando la vox populi che aveva marchiato l’uomo come un arrivista e spietato usuraio. Chi recita chi è la vittima e chi il carnefice? Non c’è gioco delle parti che tenga qualcuno ha scritto e diretto tutto questo gran teatro ma lui assiduamente aiutato dalla fidata squadra e da due giovani Steno Vanzina e Federico Fellini affidando ad ognuno il suo ruolo compie le sue mosse sulla scacchiera della giustizia . L’autore scrive tra noir e western un racconto lungo che è un colore sfumato tra verità e menzogna. Una storia dal ritmo serrato e avvincente che utilizzando il colore della polvere ridisegna abilmente il quadro dell’orrore. Giochi di potere e impuniti soprusi che raccontano un degrado generale e vibrante malcontento. C’è un sottile confine tra opportunismo e necessità per questo l’autore tratta la pedofilia inserendola anche in quegli anni in cui sembrava un fantasma, ma era più di una vivida presenza. Con una straordinaria introspezione l’autore si addentra nei meandri del candore. Attraversare l’inferno per capire se ciò è stato, può ritornare e se la lontananza è ricucibile, oppure lo strappo è insanabile, perché amare e vendicare s’intersecano in una rima ma nel canto della solitudine è la possibilità a scegliere la sua direzione .